Inauguriamo con questo articolo una sezione che tenterà di raccontare la storia e il presente del cinema palestinese.
Abbiamo pensato che fosse interessante, visto che stiamo come Movi(e)ngtoGaza stiamo andando a girare un film insieme ai palestinesi, parlare di un cinema sconosciuto come questo, vittima di un embargo che non è solo economico ma sopratutto culturale. Iniziamo questa raccolta di articoli con uno scritto tratto da “Il cinema dei Paesi Arabi” Venezia – MARSILIO – 1993 – scritto daAndrea Morini, Erfan Rashid, Anna Di Martino e Adriano Aprà. Iniziamo appunto dalle cosidette “origini”… buona visione.
1. IL CINEMA PALESTINESE PRIMA DI AL-FATAH
Se la nazionalità di un film venisse determinata esclusivamente in base al luogo d’origine del suo autore, si potrebbe affermare che il secondo lungometraggio prodotto in un paese arabo – e il primo realizzato in Egitto – sia stato palestinese: Un bacio nel deserto (Qubla fi al-sahrâ), diretto dai fratelli Lama e presentato al cinema Cosmograf di Alessandria il 5 maggio 1927. Infatti solo qualche mese dopo – precisamente il 16 novembre – ebbe luogo la proiezione di Layla, il film cui la critica egiziana attribuisce il merito di aver aperto la storia della cinematografia nazionale. I fratelli Lama non fecero ritorno al paese d’origine ed è pertanto impossibile attribuire loro una qualsiasi paternità sul cinema palestinese, per risalire alla nascita del quale occorre avvalersi della testimonianza di un regista iracheno, Qâsim Hawal. Egli ricorda:
“Nel corso delle ricerche che avevo compiuto sulle origini del cinema palestinese avevo potuto appurare che uno dei primi nomi che comparivano nelle cronache cinematografiche locali era quello di Muhammad Sâlih al-Kaiyaly, un operatore che pareva avesse realizzato un cortometraggio negli anni Quaranta ed un altro film sull’Esercito di Liberazione della Palestina (Jaish al-tahrir al-Filastini) agli inizi degli anni Sessanta. In mancanza di precisi riferimenti sulle modalità produttive e le strutture con le quali al-Kaiyaly aveva realizzato i propri filmati, non mi era stato possibile approfondirne la figura e l’opera. Nel marzo del 1974, avendo iniziato a lavorare ad un progetto cinematografico con alcuni palestinesi, mi recai per una proiezione nel campo profughi di Shatila, non lontano da Beirut, dove ebbi occasione di conoscere Ibrahim Hasan Sarhan – classe 1916 – che sapevo essere stato regista e operatore. Entrando nella sua abitazione, fui attratto da una foto appesa ad una parete. Essa ritraeva un uomo intento a studiare, attraverso il mirino di una cinepresa, un’inquadratura. Attorno alla testa dell’operatore era chiaramente visibile un auricolare. Fu in quel momento che ebbi l’intuizione di essere arrivato al punto essenziale della mia ricerca storica e di aver probabilmente individuato colui che aveva dato origine alla cinematografia palestinese. “
Ibrahim Hasan Sarhan ebbe il primo approccio col cinema nel 1935, quando il Re dell’Higiaz – l’attuale Arabia Saudita – visitò la Palestina e il viaggio venne filmato lungo il percorso che conduceva da al-Lidd a Tal Abib (Tel Aviv) attraverso Yaffa. Alle riprese assistette anche un testimone, al-Haj Amin al-Husaini, che indicò a Sarhan quali avrebbero dovuto essere i momenti da documentare: i banchetti, le passeggiate e gli incontri con la popolazione. Il film venne presentato dapprima nel corso di una festa a Robin – una località di villeggiatura – quindi al cinema Amir di Tal Abib.
“Poiché si trattava di un film muto – prosegue Hawal nella descrizione dell’incontro con Sarhan -, il regista mi spiegò che ne aveva accompagnato la proiezione con musiche riprodotte da un grammofono. Venni inoltre a sapere che il fumato durava 20 minuti e che era stato realizzato con una cinepresa a molla del costo di 50 dinari. La cosa dispiaceva ancora a Sarhan, il quale avrebbe preferito lavorare con un apparecchio a batteria per ottenere un ritmo più costante di ripresa. “
L’operatore – per propria ammissione – non era a conoscenza delle decisioni che il Congresso Ebraico Internazionale aveva assunto a Basilea nel 1897 circa l’utilizzo del mezzo cinematografico per propagandare il diritto ebraico alla Palestina.
Sarhan si rese tuttavia conto – aggiunge Hawal – che gli ebrei giunti in città si preoccupavano soprattutto di riprendere le strade sporche e i bambini vestiti con indumenti consunti e che i film da essi realizzati, alternando riprese di terreni incolti con sequenze in cui venivano mostrati coloni al lavoro, sottolineavano la produttività dei nuovi insediamenti ed ignoravano quanto veniva quotidianamente svolto dalla popolazione palestinese. Fu proprio per contrastare la tendenziosità di queste immagini che l’operatore decise di specializzarsi nel documentario.
Sarhan, dopo il cortometraggio del 1935, realizzò agli inizi degli anni Quaranta un filmato di 45 minuti dal titolo Sogni avverati. In precedenza egli aveva ricevuto da alcuni ebrei residenti in Palestina l’offerta di dirigere film veri e propri. Benché l’idea lo avesse affascinato, rifiutò, perché diffidava dell’inesperienza di un gruppo di mercanti, i quali probabilmente avrebbero utilizzato il suo mestiere più per realizzare guadagni immediati che per dare vita ad una struttura produttiva vera e propria. E precisava che non aveva voluto assecondare le opinioni politiche di chi favoriva il permanere in Palestina di una situazione di gravissima tensione. Dopo la realizzazione di Sogni avverati, Sahran aprì uno studio professionale e col materiale girato in occasione della sua inaugurazione montò un documentario che venne proiettato al cinema Faruq di Gerusalemme per due settimane. Il regista, che conosceva anche la tecnica di laboratorio e possedeva l’attrezzatura per lo sviluppo, realizzava abitualmente i propri film con velocità impressionante. In occasione della visita a Gerusalemme e Yaffa di un membro del Consiglio superiore arabo – il Pascià Ahmad Hilmi – Sahran fu in grado di ultimare le riprese alle quindici e di presentare il filmato alle diciotto presso il cinema al-Hamra. Col ricavato della vendita di quella pellicola – circa trecento sterline palestinesi – acquistò una moviola più perfezionata. Fu in quel periodo che si fece strada nella mente di Sarhan l’idea di trasformare lo studio che possedeva in un più grande e moderno stabilimento cinematografico. Il progetto venne finanziato attraverso l’emissione di titoli che furono acquistati in breve tempo da circa duemila azionisti e attraverso la costituzione della Società araba del cinema. La struttura che ne derivò immediatamente – lo Studio Palestina – venne riconosciuta dalle autorità britanniche e registrata a Gerusalemme. L’attività della nuova società di produzione si concretizzò nella realizzazione di due lungometraggi: Nella notte della festa, un film comico nel quale vennero impiegati alcuni semplici effetti speciali, e Tempesta in casa. Con lo scoppio della guerra del 1948 Sarhan fu costretto a sospendere l’attività e a rifugiarsi in Giordania, paese nel quale prese parte alla realizzazione del film Lotta a Jarash (Sira’un fi Jarash, 1957-1958), opera con cui concluse la propria parabola professionale. Il film, che narrava le disavventure di un turista alle prese con una banda di malfattori, poté essere proiettato in pubblico grazie al personale interessamento di Re Hussein. Tuttavia sull’attribuzione a Sarhan della piena paternità del film gli storici del cinema non sono concordi: mentre le dichiarazioni rilasciate dallo stesso cineasta palestinese a Qâsim Hawal farebbero concludere che l’anziano operatore sia stato il regista del primo film giordano, i titoli di testa del film segnalano che l’autore di Lotta a Jarash sarebbe Wasif al-Shaikh Yasîn e che Sarhan avrebbe preso parte al film in qualità di operatore.
2. IL NUOVO CINEMA PALESTINESE
Gli anni intercorsi tra la nascita dello Stato ebraico (1948) e la costituzione di al-Fatah (1° gennaio 1965) non registrarono pressoché alcuna attività cinematografica. Agli inizi del 1968 venne creata ad Amman, sotto l’egida della stessa al-Fatah e per volontà di Hânî Jawhariya, Sulâfa Jadallah e Mustafa Abu Ali, l’Unità del cinema palestinese (Wihdat Aflam Filastin). L’organismo, dotato di scarsissimi mezzi, all’inizio si specializzò in reportage fotografici. La prima produzione cinematografica dell’Unità fu La terra bruciata (1968), un documentario sugli attacchi militari israeliani nella regione di al-Aghwar. Nel 1969, dopo aver esposto una serie di immagini relative alla battaglia di Karama, il collettivo cinematografico di al-Fatah diresse No alla resa (La li al-hai al-silmi), il film che sancì ufficialmente l’atto di nascita della cinematografia palestinese. Nel settembre del 1970 l’UCP riuscì a documentare, grazie alle riprese di Hânî Jawhariya, i massacri perpetrati dall’esercito giordano. Il materiale, mostrato da Yasser Arafat alla riunione dei Capi di Stato del Cairo, provocò profonda emozione e venne montato da Mustafa Abu Ali sotto il titolo di Con l’anima e col sangue (Bi al-rûh bi al-dam). Il film ottenne il premio per il miglior documentario alla prima edizione del Festival del Cinema Giovane di Damasco (1972), prima pellicola palestinese citata dalla stampa all’interno di una manifestazione a carattere internazionale.
Nel 1971 l’Unità cinematografica si trasferì a Beirut, dove ebbe la possibilità di incrementare le proprie attrezzature tecniche. L’anno successivo anche la sezione culturale dell’OLP cominciò a produrre film e nel 1973 il collettivo cinematografico di al-Fatah dette vita al Gruppo dei cineasti palestinesi (Jama’at al-sinima al-Filastinia), struttura produttiva che aderì al Centro di ricerche palestinesi (Markaz al-abhath al-Filastinia) e che ereditò le diverse esperienze compiute fino a quel momento dai vari organismi cinematografici operanti dal 1965 in poi. Il GCP non diresse tuttavia che un film, Scene di occupazione a Gaza (Mashâhid min al-ihtilât fi Ghaza) di Mustafa Abu Ali. Nel 1974 diede origine a un’ulteriore struttura: l’Organizzazione del cinema palestinese. Nel 1975, dopo dieci anni di attività, erano stati realizzati 35 film (di cui 19 dall’Unità del cinema palestinese, 5 dal Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, uno dalla fazione di George Habash, 5 dalla sezione culturale dell’OLP, 3 dal Fronte Democratico di Liberazione della Palestina, uno dal Gruppo del cinema palestinese e un altro dalla Samed Produzioni).
Nel 1979, anno in cui diede vita all’Istituto del cinema palestinese, Mustafa Abu Ali affermava che non era possibile racchiudere l’esperienza cinematografica del movimento di liberazione della Palestina in una semplice definizione geografica, poiché tutto il cinema che documentava quell’esperienza di lotta poteva essere a giusta ragione definito palestinese. L’affermazione di Abu Ali non conteneva esclusivamente una valutazione politica, ma si basava soprattutto sull’osservazione del carattere cosmopolita del cinema palestinese: una caratteristica di fondo che si sarebbe ulteriormente accentuata negli anni successivi.
Alla crescita di questa cinematografia non contribuirono solo i cineasti palestinesi. Momenti importanti della sua storia furono scritti non solo da registi arabi – l’egiziano Tawfîq Sâlih, il libanese Burhân Alawiya, gli iracheni Qâsim Hawal e Qâis al-Zubaydi, i siriani Khalid Hamadah, Muhammad Shahin, Marwan Mud’in, Nabil al-Malih -, ma anche da registi occidentali (Jean-Luc Godard tra gli altri).
Su questo cinema di intervento e di lotta si ritiene opportuno citare una sintesi autorevole:
Il cinema palestinese può essere ricondotto a tre componenti essenziali:
- i cinegiornali. Fin dall’inizio il cinema palestinese si è concentrato sugli avvenimenti per registrarli, commentarli ed analizzarli nei loro mutamenti e nella loro evoluzione. In rapporto alla rivoluzione palestinese i fatti più importanti sono stati: il piano Rogers del 1969 e le sue conseguenze, la repressione del 1970 in Giordania, i bombardamenti selvaggi dei campi profughi del 1972 e del 1974 e gli assalti militari israeliani nel Libano meridionale (1971) e a Kafr Kuba (1974). La maggior parte delle testimonianze filmate sugli avvenimenti del periodo sono state realizzate dall’organismo del cinema palestinese mediante la produzione di cinegiornali;
- i documentari, che possono a loro volta essere suddivisi in due ulteriori filoni:
- le produzioni basate sull’utilizzo parziale o totale di materiale d’archivio (Tutto va bene, una produzione siriana, Scene d’occupazione a Gaza, La Palestine vaincra, una produzione francese, e Storia di Sarhan, libanese);
- i filmati riguardanti le fasi della lotta di liberazione e gli aspetti della vita del popolo palestinese nelle basi militari e nei campi profughi: La vita al campo di Nahr al-barid, Le nostre piccole case, (due film realizzati dal FPLP), Lontano dalla patria e Perché?, prodotti rispettivamente in Siria ed in Egitto. Bisogna inoltre citare i film realizzati in base a illustrazioni o canzoni: Ricordi e fuoco, La chiamata urgente (prodotti dalla sezione culturale dell’OLP) e Testimonianze di bambini al momento della guerra (realizzato in Siria); i film di fiction. Se si eccettua Sanaud, coprodotto dall’OLP e dall’ONCIC algerino nel 1973, i film di fiction sono tutte realizzazioni arabe non palestinesi: Gli ingannati di Tawfîq Sâlih (Egitto), Kafr Qâsim di Burhân Alawiya (Libano) e Ombre sull’altra riva di Ghalib Sha’ath.
A partire dalla metà degli anni Ottanta la maggior parte della produzione palestinese è stata realizzata attraverso l’Istituto del cinema palestinese – riorganizzato a Tunisi nel 1987 – e la sezione cinematografica del Dipartimento cultura dell’OLP, attiva nella capitale tunisina dal 1985. Tra i titoli di maggior rilievo realizzati in questo periodo hanno un’importanza particolare i seguenti: Il sogno (1986) del siriano Muhammad Malas, mediometraggio di fiction sulle aspirazioni dei profughi che vivevano nei campi libanesi prima dell’invasione israeliana del 1982; Cronaca di un popolo (1988) di Qais al-Zubaydi, documentario dedicato alla storia del popolo palestinese dall’inizio del secolo agli anni Settanta; I lanciatori di pietre di George Khlaifi e Ziad al-Fahum, cronaca del primo anno d’Intifada; Il pessi-ottimista (1990) di Muhammad Bakri, un efficace one-man show del celebre interprete del film israeliano Oltre le sbarre di Un Barbash; e Hanna K di Costa-Gavras, tratto dall’omonimo romanzo di Emile Habibi.
Nell’ambito delle produzioni palestinesi realizzate all’estero assume un rilievo particolare l’opera di Michel Khlaifi, una delle figure più rappresentative del cinema palestinese degli anni Ottanta. Nato a Nazareth nel 1950, ha compiuto gli studi a Bruxelles, diplomandosi all’INSAS nel 1977. Khlaifi ha esordito nel lungometraggio con La memoria fertile (Al-dhâjira al-khisa, 1980), nel quale ha affrontato il tema dei rapporti culturali e affettivi che legano le diverse generazioni di esiliati alla madrepatria. Attraverso la descrizione del viaggio di ritorno in Palestina di due donne – un’operaia e una scrittrice – il regista fornisce non solo un’acuta testimonianza dell’oppressione cui è soggetto il popolo palestinese ma anche un’appassionata analisi della condizione femminile nel mondo arabo. Il suo secondo lungometraggio, Nozze in Galilea (Urs fi al-Jâlil), presentato con successo alla Quinzaine des réalisateurs nel 1988, è una commossa e vibrante riflessione sulle difficoltà di realizzare nei territori occupati la pacifica coesistenza di arabi ed ebrei. Il terzo, Cantico di pietra (Nâshid al-hajar), 1990), è un ulteriore contributo ai temi della lotta di liberazione del popolo palestinese. Michel Khlaifi ha ultimato nel 1993 il suo quarto lungometraggio: L’ordine del giorno (Jadwal âmâl).
Il cinema palestinese, nell’arco degli oltre vent’anni della propria vita, ha dovuto affrontare numerosi problemi. I risultati, non sempre positivi, debbono essere interpretati alla luce delle specifiche condizioni in cui esso si è formato. In primo luogo occorre sottolineare l’effetto che la stessa diaspora palestinese ha avuto sullo sviluppo di questa cinematografia, dati i continui spostamenti da un paese all’altro a cui sono state costrette istituzioni e strutture. Al cinema palestinese sono mancati gli elementi di base per la creazione di una rete produttiva e distributiva e per la costituzione di un circuito di sale vere e proprie. Per di più ha risentito – e risente tuttora – delle tensioni politiche che il dramma vissuto dalla popolazione palestinese ha creato sia all’interno che all’esterno del mondo arabo. Nello stesso tempo si è potuto giovare di alcune condizioni favorevoli: la coerenza con cui i cineasti palestinesi si sono applicati al cinema di diretta documentazione sociale e lo stretto rapporto venutosi a creare tra i cineasti stessi e le popolazioni dei campi. Più in generale il terreno arduo e contraddittorio della “questione palestinese” ha formato gran parte dei documentaristi arabi contemporanei e l’esperienza che alla cinematografia palestinese è derivata dalla lunga consuetudine all’osservazione e alla documentazione del reale ha fornito loro la struttura portante. La lezione realista impartita dal conflitto palestinese ha investito anche il cinema di fiction, fornendo ad esso non solo soggetti di estremo interesse, ma anche l’esatta chiave metodologica per coglierne i dati essenziali. I migliori lungometraggi dedicati alla questione palestinese – Gli ingannati di Tawfîq Sâlih, Kafr Qâsim di Burhân Alawiya e Il ritorno in patria di Qâsim Hawal – hanno infatti saputo coniugare gli elementi drammaturgici propri della narrazione di fiction ad una solida intelaiatura realistica mutuata da un’attenta analisi della situazione presa in esame.
La natura essenzialmente politica della cinematografia palestinese non ha tuttavia soddisfatto le aspirazioni dei suoi cineasti. Al contrario, essi hanno manifestato in più occasioni il desiderio di assumere funzioni più complesse e di elaborare progetti linguisticamente più raffinati. Le dichiarazioni rilasciate dal regista Jibnil Awad nel corso di una tavola rotonda promossa nel 1988 dalla rivista “al-Alam” esemplificano chiaramente queste posizioni:
Senza dubbio il cinema palestinese, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Settanta, ha svolto una funzione molto importante ed ha raggiunto un prestigio internazionale non indifferente. Tuttavia esso deve ancora giungere ad un livello sufficientemente alto di maturità linguistica ed è ancora prigioniero dello stile proprio dell’argomentazione politica. La realtà palestinese è molto ricca e complessa ed il cinema, rivolgendosi ad essa, deve essere in grado di coglierne i diversi aspetti e di ricavarne trame ed argomenti in cui l’elemento estetico si sposi con la riflessione propriamente politica. Il cinema deve impegnarsi affinché al popolo palestinese siano restituiti i diritti perduti e pretendere di allinearsi ad un più alto livello espressivo.
Jibril Awad traeva spunto dal dibattito sul ruolo del cinema nella società palestinese per osservare che:
nel mondo arabo i programmi culturali hanno sempre rincorso i progetti politici. Ad ogni manifestazione involutiva del sistema politico ha puntualmente corrisposto un grave fenomeno di riflusso culturale. Il cineasta palestinese ha vissuto in prima persona questo conflitto ed ha dovuto convivere non solo con i meccanismi censori messi in atto dai regimi autoritari presenti sulla scena politica araba, ma anche con il diffuso scetticismo di chi rifiuta di assegnare alle manifestazioni della cultura e dell’arte il giusto rilievo. In molti paesi arabi il cinema palestinese è stato – ed è tuttora – considerato uno strumento di sovversione politica ed al cineasta che ne è portavoce è stato concesso un tasso di libertà che variava sulla base degli equilibri tattici del momento. Queste condizioni non ci hanno mai impedito di affrontare gli argomenti che avevamo scelto; hanno in determinati momenti semplicemente impedito che la classe politica araba spontaneamente ci offrisse l’opportunità di trattarli.
Il cinema palestinese non ha trovato avversari solo all’esterno. Spesso le conseguenze del clima politico generale sono ricadute sulla società palestinese con effetti ancora più gravi: il dialogo tra la rappresentanza politica palestinese ed i cineasti ha subito bruschi contraccolpi. Adnan Madanat, uno dei più autorevoli critici giordani ed esperto di cinema palestinese, ha in varie occasioni dichiarato che in realtà il cinema palestinese, fin dalle origini, ha dovuto sempre faticosamente difendere la propria autonomia dall’invadente tutela dei rappresentanti politici. Ai registi che cercavano di ottenere finanziamenti venivano richieste precise garanzie e soprattutto si ingiungeva loro di praticare esclusivamente la strada del documentario. Il controllo politico sul cinema palestinese – prosegue Madanat – si è esteso anche a questa forma di rappresentazione ed in diverse occasioni si è giunti alla situazione paradossale per cui era comunque assai arduo realizzare un progetto cinematografico, documentario o di fiction che fosse.
Per concludere questo veloce excursus sulla cinematografia palestinese occorre riportare l’opinione, condivisa da parte della critica araba, secondo cui una delle vittime più illustri della censura operante in numerosi paesi arabi è stato proprio il cinema palestinese. Impedendo al pubblico di accostarvisi, è stata minata alla base la sua autonomia produttiva. In questo modo il cinema palestinese non solo non ha potuto creare le giuste opportunità di autofinanziamento, ma è stato emarginato persino dagli stessi circuiti culturali; con il risultato che neppure i critici hanno potuto conoscerlo in profondità ed hanno finito col dimenticare che esso non si limitava agli aspetti puramente cronachistici della documentazione sociale.
2) Qâsim Hawal, Il cinema palestinese, Dar al-Hadaf e Dar al-Anda, Beirut, 1979, pag. 9 (pubblicazione in lingua araba).
3) Cfr. J. Alexan, 11 cinema nel mondo arabo, cit., pag. 208.
4) Hassan Abu Ghanima, Le cinéma palestinien, dossier pubblicato a cura della Cinémathèque Française e della Cinémathèque Algérienne, Algeri, 1976. Per quanto riguarda i film arabi che hanno trattato più o meno direttamente la questione palestinese, Abu Ghanima ha successivamente pubblicato una filmografia composta di 220 titoli (cfr. Guy Hennebelle, Khemais Khayati, a cura di, La Palestine et le cinéma, E 100, Paris, s.d., pp. 243-272).
5) “Al-Alam” (tavola rotonda a cura della redazione di), Il cinema palestinese: il cammino e gli ostacoli, 4 giugno 1988, pag. 50 (in lingua araba).
6) Jibril Awad (intervento di) in “Al-Alam”, Il cinema palestinese. il cammino e gli ostacoli (tavola rotonda a cura della redazione), cit., pag. 10 (in lingua araba).